Trattamento dell'ipercolesterolemia in età pediatrica: controversie riguardo alle raccomandazioni dell'American Academy of Pediatrics


A luglio 2008, l’American Academy of Pediatrics ( AAP ) ha presentato la revisione delle raccomandazioni per il trattamento dell’ipercolesterolemia nei pazienti in età pediatrica.

Esiste crescente evidenza riguardo all’inizio precoce dell’aterosclerosi; il trattamento dell’ipercolesterolemia nei bambini appare ridurre il rischio cardiovascolare nel corso della vita.

Le nuove raccomandazioni rappresentano, nella maggior parte dei casi, modifiche incrementali di pratiche precedenti, enfasi sul miglioramento della qualità dei grassi nella dieta piuttosto che riduzione nell’assunzione di grasso totale, ed abbassamento dell’età alla quale la terapia farmacologica può essere istaurata, da 10 a 8 anni.
Il capitolo più controverso appare essere quello riguardante l’inclusione delle statine come potenziali farmaci di prima linea.

Il colesterolo è un lipide presente nella membrana cellulare e negli organelli subcellulari dei tessuti. Per la sua natura antipatica, il colesterolo svolge un ruolo chiave nel mantenimento della fluidità di membrana, pertanto influenzando il segnale transmembrana ed altre fondamentali funzioni cellulari.
Il colesterolo a livello cerebrale promuove la formazione della mielina, la sinaptogenesi, e la plasticità neuronale.
Inoltre, il colesterolo è la base per la sintesi degli ormoni steroidei, tra cui cortisolo, aldosterone, estrogeno e testosterone.
L’importanza del colesterolo per la salute è dimostrata dalla sindrome di Smith-Lemli-Opitz, un disordine causato da una ridotta biosintesi di colesterolo e che si manifesta con insufficienza multiorgano.

Prima delle nuove raccomandazioni, l’American Academy of Pediatrics raccomandava solo una classe di farmaci ipolipemizzanti, le resine leganti gli acidi biliari come Colestiramina ( Questran ) o Colestipolo, che si legano al colesterolo a livello intestinale e che presentano il vantaggio di non produrre alcun effetto indesiderato sistemico clinicamente rilevante.

Le statine esercitano i propri effetti inibendo l’HMG-CoA reduttasi, un enzima coinvolto nella sintesi del colesterolo.
Inoltre, le statine inibiscono la produzione di mevalonato ed altri intermedi del colesterolo nel pathway isoprenoide. Questi composti, farnesil pirofosfato e geranilgeranil pirofosfato, partecipano alla modificazione post-trascrizionale di piccole proteine leganti la guanosina trifosfato ( GTP ), coinvolta nella proliferazione cellulare ed in altre funzioni, fornendo una spiegazione molecolare agli effetti pleiotropici delle statine, che sono osservati sia in vitro che in vivo.
Sebbene il sito primario di azione delle statine sia il fegato, alcuni farmaci di questa classe inibiscono la sintesi di colesterolo in altri tessuti, tra cui il cervello.

Le statine sono state estensivamente studiate ed hanno un ragionevole profilo di sicurezza. Il principale evento avverso, la miopatia, si presenta raramente.
Gli studi di prevenzione primaria hanno mostrato una ridotta incidenza di eventi cardiovascolari, ma non una riduzione della mortalità tra gli adulti.
Esistono dati limitati, di breve periodo, che hanno mostrato la sicurezza delle statine nei bambini, ma mancano dati osservazionali di lungo periodo.
A 8 anni d’età, il cervello di un bambino è in fase di crescita e sviluppo dinamici; questo fa ipotizzare che la farmacoterapia di lungo periodo, iniziata a questa età, possa influenzare in modo avverso il sistema nervoso centrale, la funzione immunitaria, gli ormoni, il metabolismo energetico o altri sistemi.

Di contro, negli ultimi 25 anni, la prevalenza di obesità pediatrica è triplicata. L’aumentato peso corporeo nell’infanzia è strettamente associato al rischio di malattia cardiovascolare in età adulta.
Alcuni report hanno mostrato casi di insufficienza renale richiedenti dialisi, amputazione degli arti, e morte prima dei 30 anni, tra le persone che hanno sviluppato il diabete mellito di tipo 2 durante l’adolescenza. ( Xagena_2008 )

Fonte: The New England Journal of Medicine, 2008



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